Sono le 12 di un tranquillo mercoledì di luglio quando varchiamo la soglia Good Land, startup bolognese a vocazione sociale nata per volontà di Lucio Cavazzoni nel marzo del 2019 e che si occupa, come leggiamo sul sito, “di terra, territori e persone”, a partire dalle aree d’Italia più in difficoltà.
Ad accoglierci negli uffici di Good Land c’è il suo presidente, che già conosciamo per la precedente carica analoga presso Alce Nero, la nota impresa di agricoltori biologici, apicoltori e produttori fairtrade, e per aver calcato quest’anno il palcoscenico a Cibò. So Good! – Il Festival dei Sapori d’Italia.
In questi 3 anni, Good Land non ha mai perso di vista il suo obiettivo di incentivare una rigenerazione rurale, riuscendo a costituire un network di produttori e associazioni accomunati da un modo di fare agricoltura che risponde concretamente a problemi ambientali e sociali. Core business della società sono la ricerca e lo sviluppo di economie legate alla terra, la progettazione di modelli d’impresa e abitativi, di agricoltura sociale, oltre alla realizzazione e commercializzazione di prodotti alimentari. Un progetto non solo dalla terra alla tavola, come si suol dire, ma che pone al centro il benessere di ambiente e persone, valorizzando proprio quei prodotti agricoli utili a tal fine; che guarda alla montagna e alle aree interne con cura e dedizione per preservarle dall’abbandono, e che tratta il cibo come il motore per rilanciare l’artigianalità, la territorialità e la biodiversità.
Sì, perché il cibo non è solo nutrimento: è anche cultura, identità, ambiente, storia, comunità.
Ogni prodotto che portiamo in tavola ci racconta del suolo sul quale cresce, dell’aria e dell’acqua di cui si nutre, dei saperi di una comunità che se ne prende cura. E non serve andare troppo lontano alla ricerca di terreni e prodotti da preservare: basta anche solo affacciarsi poco oltre la città di Bologna, sede di Good Land, e osservare gli Appennini. Ed è proprio da qui che partiamo con Lucio Cavazzoni per comprendere come si può innescare un cambiamento e raggiungere un nuovo modello virtuoso.
Lei è, tra le tante cose, presidente del Comitato promotore del Biodistretto dell’Appennino. In che modo l’agricoltura di montagna e le produzioni appenniniche possono essere sostenute?
“Il punto fondamentale da tenere in considerazione quando si parla di agricoltura di montagna è uno: che è stata costretta a competere con l’agricoltura di pianura, il ché è impensabile. Bisogna puntare ad avere un’indipendenza produttiva focalizzata sulla salute, perché è proprio questo il core business dell’agricoltura di montagna: è più limitata e, in quanto tale, più salutare. Perché? Perché le mucche che si nutrono di erba e fieno producono un latte che fa bene rispetto al latte prodotto da mucche che si cibano di soia e mais, ad esempio, ovvero un tipo di alimentazione che in natura le mucche non conoscono.
E lo stesso vale per i grani. Perché ci sono tanti grani antichi in Appennino? Perché sono storici e crescono bene; inoltre ci sono dei limiti nel territorio e nelle risorse disponibili per la loro coltivazione che rendono questa una produzione minore rispetto alle colture di pianura. Quindi, essendo una produzione più limitata, si riesce a valorizzare una tipologia di grano con caratteristiche molto diverse da quelle più diffuse: sono grani alti fino a 2 metri, più resistenti e con qualità nutrizionali molto diverse”.
Secondo Lucio Cavazzoni non è più un problema di conoscenza quello che affligge il settore, ma è un problema di relazione. Non è solo il fatto di sapere da dove proviene ciò che mangiamo, è di più: ognuno deve entrare in relazione con la terra perché attraverso la relazione, il legame, si comprende il valore del prodotto, che è diverso dal prezzo. Il valore è ciò che fa la differenza.
Secondo lei che ruolo gioca il cibo nel rapporto tra zone urbane e rurali e nel rilancio del turismo di prossimità?
“La definizione più bella che ho sentito del cibo negli ultimi 3 o 4 anni è di Vandana Shiva: il cibo è il vero metabolita tra l’uomo e la terra. Fra la città e la campagna, fra la biodiversità e la biodiversità culturale, cioè è qualcosa di più di una connessione, di una relazione, di un’unione: il metabolita unisce entrambi in qualcosa di differente, è qualcosa che digerisce e trasforma ciò che era prima in qualcosa di diverso. È perfetta come espressione, il cibo è proprio questo: molto di più di una relazione, molto di più di un legame, è il metabolita che unisce. E questo lo si capisce molto bene guardando il suo contrario.
Il cibo è il risultato del terreno, delle mani delle persone, del clima, del paesaggio, di tutto ciò che conforma un determinato territorio, incluse le sue tradizioni. In una parola, il terroir. E soprattutto c’è un’idea di artigianalità nel cibo, di relazione diretta fra la terra, gli animali che la popolano, l’uomo. Questo è il cibo come lo intendiamo noi.
Se, fino al 1860 – prosegue Lucio Cavazzoni – il 99% del cibo era direttamente ceduto da chi lo produceva alle persone che se ne cibavano, oggi invece il 90% del cibo che raggiunge i grandi centri urbani non ha pressoché nulla a che fare con tutto ciò.
Con il processo di industrializzazione e urbanizzazione, il cibo viene prodotto per l’industria, non più per me o per te; viene manipolato e completamente mutato industrialmente, allontanandoci da questa idea di relazione con la Terra con la T maiuscola, la Terra come Terra Madre, elemento relazionale del vivente.
Progressivamente, insomma, si perde tutto. Al giorno d’oggi c’è una totale estraneità tra le persone e la Terra, proprio perché queste si sono abituate alla complessità del cibo industriale, manipolato a seconda di quelli che sono i supposti piaceri o le convenienze, i vantaggi. C’è bisogno di colmare il divario che si è creato nella relazione con la Terra, promuovendo in tutti i modi un modello di cibo – e soprattutto di agricoltura – differente. La scelta fra agricoltura industriale e artigianale è ormai una scelta esistenziale”.
Riprendendo la metafora del cibo come metabolita fatta da Lucio Cavazzoni poc’anzi, ecco che questo si pone come elemento di congiunzione fra città e campagna, non di separatezza come invece è diventato.
Come si legano tra loro il progetto del Biodistretto dell’Appennino e il marchio Good Land?
“Noi siamo presenti con Good Land all’interno del progetto del Biodistretto da una parte per i grani antichi, le farine e per i latticini da latte fieno, fa parte dei nostri obiettivi strategici. Dall’altra parte ci interessa molto il rapporto con tutti i Biodistretti in quanto sono strumento fondamentale per la costruzione di comunità di scopo, il cui obiettivo strategico non è quello di vendere i propri prodotti, bensì di farsi promotori di uno sviluppo in senso agro-ecologico e sostenibile delle economie e dei territori.
Il Biodistretto, infatti, è quel modello di sviluppo che punta ad una agricoltura avanzata nei territori montani, ricchi di biodiversità e vocati a produzioni di qualità. È più di una rete che connette: è un legame che stabilisce relazioni. Il Biodistretto, quindi, vuole cercare di essere un’esperienza progettuale, concreta; per questo anche sul sito di Good Land scriviamo che “dietro ogni prodotto c’è un progetto”. In definitiva, bisogna pensare ai Biodistretti come comunità che si costituiscono dove, ripeto, l’obiettivo non è commercializzare – quello è uno strumento – ma concentrare energie in direzione agro-biodiversa e agro-naturalistica”.
Qual è il suo rapporto con i prodotti tipici dell’Appennino bolognese? Ce n’è uno per il quale ha una predilezione particolare?
“Una cosa che mi appassiona molto è l’amore dei castanicoltori verso queste piante che hanno sofferto molto e sono tuttora in sofferenza. Sono piante tanto forti, ma che hanno bisogno di cure. Piante con una storia secolare, che hanno sfamato generazioni di persone e secondo me la castagna è uno di quei prodotti molto interessanti, che dovrebbe ricostituire una nuova economia”.