A JOURNEY THROUGH ITALY
Wander through Italy’s wonders, without missing the best.
history of gastronomy

Luca Cesari and the history of pasta in ten dishes

When was carbonara born? And really fettuccine Alfredo are an Italian-American dish? Luca Cesari takes us on a journey through the history of the 10 most symbolic dishes of our tradition.

Luca Cesari

Lui si definisce “un bambino inappetente nella Bologna degli anni ’70, amorevolmente nutrito a tagliatelle e tortellini da una nonna cuoca”. Ma Luca Cesari è molto più di questo: è uno storico della gastronomia che si ciba della saggezza contenuta in antichi ricettari, una delle sue fonti preferite.

Quello che ci ha gentilmente servito in questa intervista, è un piatto dal persistente profumo di storia e cultura, il cui aroma ci ha condotti verso un primo assaggio della sua creazione. “Storia della pasta in dieci piatti. Dai tortellini alla carbonara”, edito da “Il Saggiatore”, è il risultato di un alacre lavoro dettato dalla volontà di sfatare molti dei miti e delle leggende che avvolgono ricette così iconiche da renderle ai nostri occhi (e alle nostre papille) quasi sacre. Piatti che ci paiono intoccabili e incontaminabili, immutati nei secoli, ma così non è.

In questa fenomenologia della tradizione culinaria italiana, si viaggia nel tempo e nello spazio alla ricerca del momento in cui una ricetta nasce, ma anche e soprattutto di come si trasforma, fino ad assumere i tratti che conosciamo e riconosciamo. Un percorso a ritroso che ci mostra una via non sempre lineare, differente forse da come la pensavamo, carica di biforcazioni e cambi di rotta.

Copertina Storia della pasta in dieci piattiMi sono accorto, da storico della gastronomia – ci spiega Luca Cesari – che i racconti che si fanno sulle origini dei singoli piatti sono invasi da leggende, miti, favole di ogni tipo, ma c’è ben poco di storia. Basta dare uno sguardo all’Artusi, banalmente, per vedere che, verso la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, tante cose della gastronomia che noi conosciamo non esistevano. Non esisteva l’amatriciana, la carbonara, il ragù come lo intendiamo noi, per esempio. C’erano piatti totalmente diversi, uno su tutti i tortellini: quelli dell’Artusi non sono certo quelli che conosciamo oggi. Era necessaria un’opera di analisi, attraverso i ricettari, ma anche altre fonti, per ricostruire l’evoluzione dei piatti dalle loro origini. Rintracciarle è difficile sono sempre abbastanza nebulose, ma c’è un momento in cui compaiono e, da lì, ci si accorge che l’evoluzione è molto variegata”.

 

L’evoluzione di cui non sempre si parla ha a che vedere con il nostro bisogno di costruire un’identità. Mi sbaglio?

No, è corretto. C’è un’ideologia di base che ci fa pensare alle ricette come qualcosa di statico: l’idea politica che vede la nostra identità e le nostre tradizioni come bloccate, ferme. Ad esempio, quella che noi, in quanto italiani, abbiamo sempre mangiato la pasta, ma 150 anni fa erano davvero in pochi a mangiarla. Ciò che noi intendiamo con “tradizione”, in alcuni casi è stata una vera e propria opera di costruzione fatta a tavolino, che è servita agli italiani per riconoscersi a livello identitario, grazie ad alcuni valori gastronomici per noi molto forti.

 

E questo ha a che vedere con la storia dell’Italia e la sua frammentazione, storicamente parlando?

Esatto, è proprio così. A differenza della Francia, dove si è riusciti ad avere una cucina nazionale tra il ‘600 e il ‘700 – che, poi, la Francia è in verità Parigi, quindi la cucina parigina interpretava, bene o male, la cucina di un intero Paese – da noi è impossibile sostenere che la cucina milanese interpreta quella napoletana e viceversa. Noi italiani siamo sempre stati molto frammentati e abbiamo anche una diversità territoriale molto marcata, per cui abbiamo sempre fatto fatica a trovare una sintesi. È ciò che si è tentato di fare dopo la Seconda Guerra Mondiale, tanto che, fino agli anni Settanta, nei ristoranti e nei grandi alberghi si parlava francese. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, in particolare negli anni Sessanta, abbiamo cercato di trovare una strada autonoma e ce l’abbiamo fatta. Ci siamo staccati dall’egemonia francese e siamo riusciti a lanciare una cucina italiana completamente autonoma, con una miriade di piatti conosciuti nel mondo”.

 

Di quali fonti ti sei servito per questa ricerca?

Per la maggior parte sono ricettari, con tutte le mancanze che un ricettario può avere, ma anche articoli di giornale. Prendiamo il caso della carbonara: questo piatto viene citato per la prima volta in un articolo de “La Stampa” nel 1950; solo citata, non narrata nella sua preparazione. Nel 1952 nasce la prima ricetta americana della carbonara, nel 1954 la prima versione italiana. Da lì esplode “il caso carbonara” e negli anni Settanta iniziano a circolare decine di ricette, fino al successo di questo piatto che prima non esisteva, nemmeno una cosa identica, ma chiamata in maniera diversa.

Luca Cesari carbonara
Foto @Gianluca Simoni

La pasta è il filo conduttore di tutto il libro perché, come simbolo istituzionalizzato, rappresenta l’italianità per eccellenza. Hai anche citato le fettuccine Alfredo, demonizzate in lungo e in largo, ma…

Quella che abbiamo demonizzato è la versione tipicamente italo-americana di questo piatto, come gli spaghetti alla bolognese, pensando si tratti di un “italian sounding”, ma non è così. La vera “Alfredo” nasce a Roma nel 1908 da Alfredo Di Lelio, che non fa altro che riprendere una ricetta che aveva almeno mezzo millennio di storia alle spalle, ovvero la pasta con burro e parmigiano, quella che noi chiamiamo pasta in bianco.

Alfredo divenne molto famoso per questa pasta – incalza Luca Cesari – nonostante fosse molto banale, e ci riuscì un po’ perché lui stesso riusciva a renderla molto cremosa, un po’ perché fece una cosa straordinaria, ovvero portare in sala ciò che normalmente si faceva in cucina. Arrivava con queste tagliatelle, il burro e il parmigiano, tutto separato. La mantecatura avveniva direttamente al tavolo, con gesti molto spettacolari, praticamente una danza di forchetta e cucchiaio tra quelle tagliatelle da amalgamare. Questa cosa fece letteralmente impazzire il pubblico, soprattutto i turisti. Insomma, a fare la loro fortuna non era tanto il fatto che fossero buonissime, queste tagliatelle di Alfredo, quanto questo suo modo di mettere in scena il piatto.

Alfredo di LelioDi questo particolare modo di servire la pasta ne parlò un giornalista – prosegue Luca Cesari – poi due grandi attori del cinema muto, Mary Pickford e Douglas Fairbanks, andarono per la seconda volta a mangiare da lui e gli donarono due posate d’oro con inciso “To Alfredo, the King of the noodles” e da lì sancirono il primato. Questa ricetta da noi è rimasta sottotono perché, in fin dei conti, era della semplice pasta in bianco e non la si poteva chiamare “Alfredo” se non era fatta da Alfredo in persona. Da noi, la versione originale romana, si chiama pasta al doppio o triplo burro, mentre in America è stata chiamata “Alfredo”, andando poi incontro all’industrializzazione che ha cambiato non di poco questo condimento. Sono state aggiunte cose come la panna e altri formaggi cremosi, non è più la nostra pasta in bianco con burro e parmigiano.

Insomma, le ricette, come una lingua, sono vive e, in quanto tali, si evolvono e si contaminano, vengono influenzate dal contatto con l’altro, subiscono cambiamenti e questo libro di Luca Cesari ce lo insegna in 280 pagine di storia da assaporare con la mente.